corsi e ricorsi

Con sentenza n. 367/2015 la Corte d’Appello di Torino, Sezione Lavoro, ha respinto le domande proposte con ricorso introduttivo dai dieci viceprocuratori onorari (d’ora in poi VPO), che avevano citato in giudizio il ministero della Giustizia e l’INPS, chiedendo di accertare che avessero svolto il servizio presso la Procura della Repubblica di Torino con modalità assimilabili a quelle del lavoratore coordinato e continuativo e per l’effetto di condannare rispettivamente l’INPS ad iscrivere dalle date di nomina i ricorrenti alla Gestione separata di cui all’art. 2 c. 26 l. 335/1995 ed il Ministero a corrispondere il contributo previdenziale dovuto nella misura di legge.

 

Tutti i ricorrenti, all’epoca del giudizio di primo grado, vantavano un’anzianità di servizio superiore al decennio (uno di loro, pari a 16 anni). La permanenza in servizio era stata stabilita per legge di anno in anno, dopo la scadenza del termine previsto dall’art. 42 quinquies dell’Ordinamento Giudiziario (che prevede la durata dell’ufficio triennale, salva possibile conferma, per una sola volta, per analogo periodo).

 

Il giudice di primo grado accoglieva parzialmente le ragioni dei ricorrenti, in quanto  i VPO sono coordinati dai magistrati della Procura della Repubblica e collaborano con loro, con rapporto unitario e continuativo e retribuzione prestabilita. L’assenza di apposita previsione normativa non è decisiva, in quanto lo stesso Inps riconosce che «ad ogni attività lavorativa, svolta sia in forma subordinata che autonoma, debba corrispondere la necessaria copertura contributiva». L’iscrizione veniva accolta con decorrenza dalla data di presentazione del ricorso inviato al Comitato provinciale in via telematica (da considerare come domanda amministrativa), non ritenendosi applicabile il principio dell’automatismo delle prestazioni.

 

Il ministero della Giustizia (che in primo grado si era costituto tardivamente, fondando la propria difesa sull’impossibilità di qualificare il rapporto di lavoro dedotto in causa come rapporto di lavoro subordinato), impugnava la sentenza di primo grado, con unico motivo così sintetizzato nella motivazione della Corte d’Appello:

 

«- sulla base delle fonti di rango costituzionale e legislativo primario che disciplinano e configurano la figura e le funzioni dei vice procuratori onorari non è consentita l’assimilazione, operata dal primo giudice, ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa;

- infatti rispetto al pubblico dipendente (e per quanto rileva ai magistrati di carriera), i funzionari onorari si differenziano per le modalità di nomina, per l’inserimento funzionale e non strutturale nell’apparato della pubblica amministrazione, per le modalità del compenso che nel caso del pubblico dipendente attiene al rapporto sinallagmatico mentre per il funzionario onorario ha carattere indennitario;

- l’accostamento al rapporto di lavoro parasubordinato deve escludersi anche per altro verso, posto che, a seguito delle deleghe conferite dal Procuratore della Repubblica, si determina un rapporto di immedesimazione organica del vice procuratore onorario con la pubblica amministrazione che esclude quindi la possibilità di ravvisare un rapporto di collaborazione».

 

I VPO appellati, si costituivano in giudizio chiedendo in via preliminare il rinvio alla Corte di Giustizia ex art.234 Trattato CE (ora art.267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea) «per la pronuncia di interpretazione pregiudiziale delle norme di diritto dell’Unione

europea che il giudice è chiamato ad applicare». Nel formulare la questione pregiudiziale la difesa dei VPO rilevava il contrasto dell’attuale normativa sul rapporto dei magistrati onorari con lo Stato italiano, con il diritto dell’Unione europea e in particolare con le direttive 97/81/CE e 99/70/CE del Consiglio (richiamando anche due importanti pronunce della Corte di Giustizia Europea: sentenza della terza sezione nelle cause riunite C-22/13, da C-61/13 a C-63/13 e C- 418/13, del  26 novembre 2014, e sentenza della seconda sezione nella causa C-393/10, dell’1 marzo 2012).

 

La motivazione della Corte d’Appello va letta tenendo ben presente la causa petendi formulata nel ricorso introduttivo, che è stata ritenuta vincolante e ostativa a una diversa qualificazione dei fatti. La Corte, infatti, anzitutto, ritiene irrilevante la questione formulata dalla difesa dei VPO, in quanto le fonti europee invocate «riguardano inequivocabilmente rapporti di lavoro di natura subordinata», mentre il ricorso introduttivo aveva ricondotto le prestazioni dei vice procuratori onorari esclusivamente ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa.

 

Si legge in motivazione:

 

«È superfluo rilevare che, secondo l’ordinamento interno, il citato rapporto (comunemente siglato come co.co.co.) si differenzia nettamente dal rapporto di lavoro subordinato, in quanto rientra nell’ampia categoria dei rapporti di lavoro autonomo, con prestazione resa in assenza di vincolo gerarchico con il datore di lavoro.

 

Quindi, in sostanza, il rinvio pregiudiziale richiesto con l’atto di appello non è rilevante nel presente giudizio, in quanto si riferisce a fonti normative, indirizzi giurisprudenziali e tipologie di rapporto differenti da quelli prospettati fin dal ricorso introduttivo».

 

Risolta così la questione pregiudiziale, ed evidenziati i limiti della domanda, la Corte esamina il motivo di impugnazione del Ministero, partendo da un assunto: l’attività dei magistrati onorari è compiutamente regolamentata, secondo un paradigma che è stato declinato già in modo unanime da pronunce di legittimità:

 

«- l’attività svolta da detti funzionari è riconducibile ad un servizio onorario, con esclusione dei caratteri di professionalità, carriera del rapporto di lavoro (pubblico e privato);

- i funzionari onorari svolgono il servizio gratuitamente, oppure con la corresponsione di un compenso che non ha funzione corrispettiva o remunerativa/sinallagmatica, ma ha natura indennitaria e di rimborso spese;

- i funzionari onorari sono inseriti funzionalmente e non strutturalmente nella pubblica amministrazione, per cui non è ravvisabile un rapporto di ‘collaborazione’ con l’ente destinatario del servizio (quanto ai profili normativi cfr. art.34, 2° co. , art. 42 ter e sgg. R.D. 12/41, art.4 D.Lgs. 273/89; quanto agli interventi giurisprudenziali cfr. Cass. sez un. 9.11.1998 n.11272; sez. lav. 15.1.1996 n.285; sez.I 23.11.1992 n.12509)».

 

Dal momento che l’attività dei magistrati onorari è compiutamente disciplinata, continua la Corte, non si aprono spazi interpretativi per  riconoscere ad essi diritti che non sono previsti dalla legge.

 

La Corte, quindi, nega che l’attività dei VPO sia riconducibile alla figura della collaborazione coordinata e continuativa, definendo fragile l’argomento del ricorso introduttivo che individuava gli elementi tipici di tale rapporto nel fatto di collaborare con i procuratori della Repubblica e di essere coordinati dai medesimi.

 

Così in motivazione:

 

«Tale costruzione non può essere condivisa in quanto l’elemento ‘qualificato’ della collaborazione e quindi la fattispecie della parasubordinazione non è ravvisabile nel “rapporto che lega il titolare di un organo all’ente al quale perviene, perché il titolare dell’organo non è esterno ad esso, ma si identifica funzionalmente con l’ente medesimo ed agisce per esso” (Cass. sez. un. 2033/85; 11272/98).

 

In particolare sulla base della delega del Procuratore della Repubblica, al VPO viene conferita la titolarità funzionale di rappresentante della pubblica accusa tale da determinare un rapporto di immedesimazione organica e non un rapporto di collaborazione con l’amministrazione».

 

La Corte avrebbe potuto fermarsi qui. I VPO non sono co.co.co. e la loro attività è disciplinata compiutamente, con la conseguenza che non ci sono spazi interpretativi per applicare analogicamente o estensivamente altre norme (nella prospettiva della domanda la normativa che disciplina la collaborazione coordinata e continuativa).

 

La “legittimità” di tale normativa rispetto alle direttive europee invocate nell’atto di costituzione e appello incidentale, come si è detto, non può essere oggetto di giudizio davanti alla Corte di Giustizia Europea, in quanto le direttive si applicano solo ai lavoratori subordinati. Pertanto tale questione è irrilevante nel giudizio, in quanto la causa petendi e il petitum sono al di fuori del raggio di azione di tali direttive.

 

La Corte, invece, nell’esaminare gli argomenti in fatto e in diritto dell’atto di costituzione dei VPO appellati, esprime alcune valutazioni che non sono correlate alla domanda oggetto del giudizio.

 

Essa, infatti, riconosce che nel giudizio ha trovato riscontri fattuali (è stato provato, vale a dire), che l’attività dei ricorrenti è divenuta un’«occupazione stabile». Riconosce anche quanto dedotto nella memoria di costituzione: in concreto e nel corso del tempo la loro attività è mutata rispetto allo schema normativo.

 

La motivazione, va detto, non si diffonde oltre rispetto ad argomentazioni difensive che la stessa Corte definisce “ampie”. Infatti i ricorrenti avevano evidenziato anche che l’attività svolta non solo non è temporanea (come previsto dallo schema normativo), ma nemmeno occasionale. Tuttavia, secondo la motivazione, era la stessa domanda a impedire di valutare oltre i fatti dedotti in giudizio.

 

La Corte si è spinta oltre, invece, quando formula una valutazione circa lo scarto tra la realtà di fatto e la norma (argomento per altro prospettato ampiamente della difesa dei VPO).

 

Si legge in motivazione:

 

«Gli elementi inerenti la “trasformazione” avvenuta nel corso del tempo dell’attività in oggetto dovrebbe indurre ad una riconsiderazione a livello legislativo (anche con riferimento ad eventuali profili di tutela previdenziale), ma si tratta evidentemente di un auspicio de iure condendo, privo di ogni impatto rispetto alla pretesa qui azionata».

 

Questo passaggio merita particolare attenzione. Non si può intendere l’auspicio formulato nella motivazione, infatti, come la manifestazione di predilezione per una soluzione politica anziché un’altra. L’auspicio, vale a dire, non può essere che inteso come giudizio di valore giuridico. Se così è, in filigrana, bisogna leggere che la Corte, seppure “parenteticamente”, e dunque andando oltre la domanda, ha espresso un giudizio sulla normativa ritenendola “illegittima” (in quanto tale essa deve essere riformata – non in quanto preferibile secondo la sensibilità sociale dei giudici). Infatti la Corte ribadisce che, rispetto alla «pretesa azionata» in giudizio, l’auspicio de jure condendo non può avere alcun «impatto». Il giudizio di valore giuridico sulla norma, vale a dire, è irrilevante rispetto alla domanda. Tale passaggio non lascia altre interpretazioni: è ovvio, cioè, che una riforma normativa avrebbe impatto sulla posizione dei ricorrenti. Ciò che non può avere impatto sulla causa, infatti, stanti i limiti della domanda, è un giudizio di valore giuridico della norma.

L’obiter dictum della motivazione, formulato dalla Corte con riferimento alla normativa, letto congiuntamente al riconoscimento, in fatto, che l’attività svolta dai ricorrenti è un’«occupazione stabile», conforta circa la necessità di chiedere l’accertamento all’organo giudiziario della natura subordinata dell’attività lavorativa svolta dai magistrati onorari, al fine di formulare utilmente la questione pregiudiziale europea con riferimento alle direttive europee che disciplinano le tutele dei lavoratori.